Recensioni – Francesco Gallo

Le possibilità combinatorie del linguaggio sono moltissime, pressoché infinite, per cui ogni metafora ed ogni fabula, possono essere utili per definire una numericità della pittura di ricerca, nel suo lavoro sulla definizione dell’impossibile che sfugge da tutte le parti a volte con scatti repentini che eccitano e appassionano, altre volte con impercettibili variazioni che inducono alla contemplazione.

 

Giuseppe Bertolino presidia questo versante fortemente mentale e concettuale della pittura, indotto ad una continua riflessione sulla forza e sulla imprevedibilità del colore, sulla sua leggerezza e volatilità, ma anche sulla sua capacità di resistere e imporre un proprio lessico. C’è una sofferenza e un’estasi in questa pittura, che noi intuiamo come esito colmo di una ansietà che si è consumata nella sua  officina interiore, vera e propria faccia nascosta di una nostra luna.

 

È una pittura che, nella sua immediatezza d’essere, si configura come entità nascosta, per cui quello che si vede, non è detto che sia quello che è, mentre quello che non si vede non è detto che sia quello che non é. La geometria che si è impadronita del suo estro, fa parte di un’ossessione alchemica alla trasformazione, che è il frutto di una continua ricerca, di una continua sperimentazione, attratta dalle spire potenti dell’ignoto, del non detto, del non  percepito, da una spiritualità matematica e galileiana che vuole conoscere le strutture, le impalcature che sorreggono le decorazioni e i fregi che sono in mezzo a noi, mentre l’essenziale, quello che regge il peso stesso del linguaggio, è costituito di lati e di angoli, di aree e di perimetri.

 

Di tutto ciò parla questa pittura nei suoi dittici, trittici, polittici, che non sono un capriccio di tipo settecentesco ma una attualissima  manifestazione di estro, di solvibilità degli impegni presi, con un filone dell’arte che ha dato grandi opere nel secolo scorso, aprendo una prospettiva al sapere immaginario che è altra rispetto all’espressionismo astratto, tutto giocato sul furore della gestualità, sulla dionisiaca bolgia delle pulsioni, mentre qui ogni gesto è  controllato, ogni colore accarezzato, anche se frutto di grande sforzo. Ma è proprio questa la calma olimpica, non altro.

Francesco Gallo

 

“E’ come un pensiero d’amore, un esibirsi fuori di sé, con leggerezza, con forza, con metafisica, con corposità, agitando una conspiratio oppositorum che trova la sua apoteosi nella massima espressione del segno e del colore, resa possibile da una intensa partecipazione al fatto pittorico, tanto da annullare gran parte di flusso di coscienza. Viene, così, esaltato il fatto gestuale che diventa il fulcro di un passaggio dall’invisibile al visibile, costituendo, ogni volta, un evento di grande importanza nel conformare un quadro che in realtà è un discorso onirico sulla natura, sul suo essere figlia del dio Pan, nella cui radice etimologica si annidano tutte le cose, da quelle più lontane da ogni possibilità di manipolazione da parte nostra (dell’ uomo) a quelle che fuoriescono dall’intelligenza e dall’invenzione.
Perché niente sarebbe possibile se non fosse inscritto nel libro dell’infinito, inteso come pura potenza espressa dall’ineffabile della parola e dall’infinita contemplazione dell’ordine numerico e geometrico che sono l’uno e il tutto da cui tutto dipende e tutti dipendiamo in una misura che non è mai colma nel lungo tragitto che conduce (e nettamente separa) alla radice dei bisogni,dei dolori, delle imperfezioni e li estirpa in nome del godimento, della felicità, della corrispondenza dell’idea della cosa, con la realtà della cosa stessa. E’ la spinta da cui nasce ogni forma d’arte astratta che si annulla le conoscenze per fare posto alla libertà del movimento o dello stare fermo, non prendendo mai strade definitive, ma sempre sentieri da cui è previsto il ritorno, è previsto l’affacciarsi al vuoto sotto cui ruggisce un magma d’infinita potenza, che può stamparsi in un volto o in una cosa e rimanere in uno statu quo ante che non aspetta tempo né spazio, perché entrambi li contiene nell’officina vulcanica del ribollimento, della perdita d’identità, ma anche della costruzione olimpica in cui tutto si veste di proporzione, di ritmo, di simmetria.
In questo senso il massimo d’astrazione tende ad essere sovrapponibile al massimo di concretezza, nella mediazione della stessa materia che può connotarsi in un verso o in un altro, ma non sempre e non del tutto in modo oggettivo, bensì all’insegna del soggetto e della psicologia che da’ ad ogni cosa un nome e su quello fonda il concetto stesso di linguaggio, di aspirazione alla libertà, ma con dentro tanta repressione che è la rivincita del selvaggio sul civilizzato.
Si potrebbe dire che l’astrazione è di per sé un extramoenia, che non condivide l’ordine del discorso, perché affascinata dallo spirito del soqquadro che è tanto gigantesco quanto attento al punto che interrompe una frase.E’ una responsabilità dell’artista quella di proporre un’opera aperta, come un campo di tante possibilità, in cui ciascuno può inserire la propria lettura, il proprio ordine rituale, senza per questo essere fuori, perché tutto è compreso nel gioco, che contempla tante possibilità di fuga, come una sinfonia costruita su una molteplicità di registri della disseminazione, come seminazione di una casualità, che confina con tanti bordi della necessità.
Viene in mente la complessità del labirinto, coperto da una patina di espressioni luminose che hanno il ruolo della pelle, incaricata di emanare odori e sapori, di mettere in moto il meccanismo della sensualità, che è un complesso, quasi un organismo complicato da tante trasversalità, quante sono le tracce di segni tracciati per far scorrere il calore e creare l’effetto della macula, come cancellazione del nulla originario e dare luogo ad una visibilità inquietante, come un enigma con una molteplicità di valenze, molte delle quali sono illusioni ottiche, arricchimenti decorativi del lirium che fa da chiave a tutto, anche contemplando un modulario essenzialmente barocco, spettacolare, dove sparisce il centro, perché ogni punto sembra il punto.
E’ il concetto di verità che in un clima di astrazione e di informale, viene ad essere continuamente arricchito dalla tangente del non finito, da questo tocco magico che suscita il colore dalla sua turpitudine quantitativa e lo porta in una elezione di qualità, inquieta sull’essenza di se stessa e su quella di tutto il mondo cioè del pensiero che è tutto, perché fuori di esso che da’ vita alla vista, al tatto, mentre esiste e tutto implode verso un proprio ipotetico punto d’origine, una sorta di darwinismo della sua coscienza e della sua sospensione.
Solo in una logica freudiana e locaniana, utilizzata come scienza della maieutica, è possibile innestare una logica di lettura complessa, capace di scendere fra gli strati del colore, come nello svolgersi di gironi infernali, quando prevale la disperazione, il senso di perdimento, che moltiplica i movimenti, nel tentativo di trovare il passaggio verso la luce. Ecco, la luce è il momento in cui la pittura trova se stessa e si può mettere di fronte allo specchio, per purificarsi da tutte le imprecisioni che derivano dal non essere per niente lineari, ma in continua ricerca del nome come chiave per entrare nella teoria, nel corteo intorno al monte mitico della verità, che ogni volta si rivela come l’esito vuoto di una ricerca che s’era illusa del fine.
L’eros è il collante di tutto ciò, il tessuto che permette di riprendere le fila della ricerca, dopo la caduta rovinosa nel caos delle mille risposte a mille domande, in una circolarità che sembra la metafora dell’immobilità. Del muoversi ed essere nello stesso punto, ma anche del paradosso di non riconoscere i punti di verità già attraversati, segnandoli come riferimenti di un discorso infinito che nasce da Caravaggio, dal Greco e attraverso l’impressionismo giunge ad un novecento tutto barocco nel corpo e martoriato nell’animo, dalle mille commedie e mille tragedie di una società dello spettacolo che si autoalimenta, per cui da un quadro ne spunta un altro, un continuo discontinuo, che non può fare a meno di se stesso, privo com’è di una metafora di riferimento.
Il nostro artista è costretto a vivere nella solitudine di chi sta in mezzo ad un intrigo, ma è solo con il suo immaginario e con quello a cui fa riferimento, scelto in un furore poetico che è come una pozzanghera per Narciso, impossibilitato a vedere la propria immagine, ad innamorarsene fino a morirne.E’ proprio questa la disperazione dell’eros di essere separato da una parte di se stesso e quindi dalla pienezza che fa si che uno corrisponda ad uno e non ad una alienazione onirica in cui tutto si perde per sfrangiamento per contaminazione assorbente, da cui a volte vengono trasparenze di difficile lettura, perché i piani pittorici si confondono l’uno con l’altro, a volte in una spessa coltre cromatica, dove si perde il senso della stratificazione, per cui l’apparenza è sempre più in là dell’essenza. E’ questa la disperazione della critica come specchio dello specchio, eros dell’eros, inconscio dell’inconscio, di un io che è costretto a fare i conti, sempre con il proprio doppio e così rischiando di incorrere nel lirismo della poesia, piuttosto che nelle asperità della ragione. Avviene così che i rossi, i verdi, i blu, i neri, i bianchi si attacchino, come colori di una microfisica che è fatta apposta per ingannare l’occhio, offuscato dall’eccessiva esposizione ai rigori del vedere; un vedere che in questo caso è come un avvincente caso, di cui tutto si può dire, fuorché che manchi del senso estetico necessario per allargare i confini del nostro orizzonte personale e con esso la via per rivedere le stelle.”

Francesco Gallo
[dalla presentazione della mostra Ecstasy presso la Galleria Nuovo Segno, Forlí, 2003]