L’itinerario artistico di Giuseppe Bertolino non si lascia facilmente imbrigliare da una qualsivoglia definizione canonica di pittura; anzi, Bertolino ha rinunciato, nell’intraprendere la sua ricerca formale, a fare delle mode e dei tempi un’arma a servizio del mercato. Egli rimane, dunque, un artista sui generis, poiché – a discapito di una certa Accademia culta che monopolizza attualmente ogni frangente dell’arte contemporanea – ha preferito aderire in modo assolutamente originale ad un genere di pittura che rifugge, al contempo, il ricettacolo figurativo, nonché il surrealismo manierista e vezzoso della cosiddetta transavanguardia di fine secolo. Se questo è l¹impatto “esteriore” del signum di Bertolino, la sua pittura, invece, cela dentro intentati abissi di stupore e creatività diligentemente posti al servizio di un canone pittorico riconoscibile, stilisticamente coerente e in perpetua evoluzione cromatica. Infatti – e ciò è a prima vista riscontrabile nell’iter di questa retrospettiva – l’utilizzo modale della spatola alternata al pennello, conferisce uno spessore ed una profondità materica assolutamente identificabili; c’è, dunque, alle spalle della formalità suggestiva di queste immagini, un artista che si rapporta costantemente con il proprio substrato onirico, con i propri sogni, con le suggestioni – talvolta indicibili – che popolano la stessa vita; un artista che guarda, con vera e filosofica meraviglia, l’alternarsi eidetico di forme contrarie – risolvibili solo a partire dalla prospettiva del colore – e, con coraggio “parricida”, le proprie intatte radici siciliane. C’è, di certo, una teoria della visione a suffragare la sicilianità del colore di Bertolino. La sua non è la Sicilia delle forme, degli stereotipi, dei chiassosi vocii o delle mitiche trasgressioni; la sua è la Sicilia della luce, metafora di un più alto, certo, da sognare. Ma questa Sicilia, questo sangue mediterraneo, segue – nel suo stesso ciclo – l’itinerario esile (eppure così fascinoso) del sogno. Sogna Bertolino un sogno nuovo, e in ciò sostituisce al retto il curvo, al piatto il materico e il sopraelevato, al monocromo il tessuto in madreperla, alla prospettiva l¹enfasi della luce, al digradar coerente l’improvviso accendersi di un¹utopia che si esemplifica in mirabili archi pregni di colore. Sogna, ancora, Bertolino di volare insieme al piccolo uomo in scuro che – posto di spalle, fasciato da un ampio mantello a ruota, con un cappello a larghe falde sul capo – esce quasi dall’azzurro di alcune tele sospinto dal vento, al seguito di un grappolo di palloncini colorati. E in questo sogno costante v’è il signum del paradosso; paradosso comune ma quantomai ardito in pittura. Volare oltre la comunis opinio, nelle regioni impervie del sogno, traducendo questa idea in tecnica pittorica e terapia cromatica. V’è dunque anche la monstruosità propria dell’impossibile (dei venti contrari che incrociano un minuetto tra le palme del deserto terrestre) in questa ricerca d’infinito e, al contempo, di orizzonte. Questo è il paradosso tematico contenuto in questo modello pittorico: la ricerca di un orizzonte che, in quanto tale, tagli una retta e restituisca certe le insidie della sfera; e, al contempo, l’anelito ad un infinito potenziale – mai attuale – che pro-voca e pro-mette dall’oltreconfine dei sogni. Ma, come accennammo prima, v’è anche un di più in questo processo coraggioso messo in moto da Bertolino, in fondo, contro se stesso, o almeno, contro quella parte di sé che, in lui come in ognuno, aspira alla stabilità di un mondo certo e coerentemente policromo. Il di più spezza – arditamente, forse – l’unità poietica della produzione pittorica fin qui espressa; ma è proprio a partire da queste parcellizzazioni cromatiche che si restituisce cursus certo alla storia artistica di Bertolino tramite la fragmentarietà episodica e un certo nomadismo cromatico. In tutto questo cammino (e il cammino, si sa, è percorso comune di tèkne ed eidos) Bertolino ha compiuto, per buona parte, il suo personalissimo parricidio. E qui il gesto classico (che affranca il seguace dal maestro o l’uomo dalla sua radice) si consuma come riscrittura del temperamento e dell’etnos siciliani. La Sicilia, mai così assente nella pittura di un siciliano, riaffiora dunque come elemento, come dettaglio, come elisione ed accenno (limoni, ginestre, girasoli, barche e coste all’orizzonte), come metafora di colore e movimento. Così il parricidio della radice può risolversi in un vero e proprio contenimento interiore della radice stessa. Essa – la Sicilia come utopia e ritorno – diviene metabola e perno di un cammino onirico e di un viaggio dentro la stessa ratio del dipingere. Bertolino sopprime l¹esteriorità siciliana per apprendere a ridisegnare le tappe di un viaggio duplice: fuggire dall’isola del rimpianto e ritornare ad essa quando essa stessa non appaia più in alcun modo assimilabile alla radice malinconica che ha ingenerato la fuga.
L’isola, dunque, per Bertolino, è, insieme, terra-madre e paradiso ou-topico del ritorno. Terra come riconquista di sé, dunque, al termine di un viaggio infinito che ricusa l’orizzonte come limite, e ne fa piuttosto un oltre felice verso cui migrare. E la tavolozza di Bertolino si presta, così, ad esprimere questa duplicità essenziale: spatola che ferisce e pennello che carezza, blu psichedelico e rosso carmineo, gialli carichi di fuoco e bruni tipici della zolla desertica, verdi intensi e trasparenze pigmentali. Se la fuga è strappo e veemenza istintiva, il recupero del Sé si fa contorno (mai figura stricto sensu) ed elegia, nostalgia e inventiva. La speranza di Bertolino s¹accende dunque di pari passo alla sua tavolozza che, lucente per via dell’utilizzo esclusivo di pigmenti puri, esplode in una vera e propria festa del colore. Separerei, con l’occhio buono dell¹erotica, almeno quattro fasi, che potremmo azzardarci a definire non solo per cromie consimili, ma finanche per evocazione archetipica. La prima è sicuramente la più vicina all’origine ispirativa della produzione iniziale: tele con forti predominanti blu in cui è evidente l¹elemento-acqua. Il mare è il protagonista indiscusso; quel mare che circonda l’isola da cui prende le mosse il viaggio, il mare periglioso delle onde e dei naufragi, quello stesso mare che accoglie in sé barche dall’albero maestro spezzato; ed infine il mare in cui è bello navigare, tramite vele triangolari, seguendo l’indizio cromatico dell’arcobaleno. Ma v’è anche il mare della certezza, al cui orizzonte s’intravede il faro, metafora della luce, che guida attraverso le rotte oceaniche e che consente d’approdare alla terra altra. Ritorno o fuga si esemplificano per antinomie nella seconda serie di tele dove il blu si scarica di ogni oscurità, mentre compaiono uomini e mimose, aquiloni e splendide vedute siderali. Appare questo come un momento di passaggio che introduce alla terza serie pittorica; ovvero al ritorno alla terra, alla trasfigurazione interiore della radice. E’ questo il momento più gravido, quello esposto al dubbio, al deserto della contemplazione e del ristoro, alla solitudine del sé ed alla scelta esistenziale. L¹uomo ha dunque varcato il regno della terra – il mito arcano delle Madri s’è fatto balzo temporale ed iperbole pittorica – ed è penetrato nell’iride cromatica. E per Bertolino la luce è violenza nel senso d’irruzione sturmundranghiana. Colori della terra, colori nuovi per Bertolino, sono il bruno, il rosso e il giallo. Da
qui all’apice pittorico della quarta serie il passo è breve; breve, non scontato. Anzi, direi piuttosto incerto, aperto alla sinossi estrema d’uomo e natura, ma finanche alla dieresi irrisolvibile tra etico ed estetico.
L’invasione della luce ha scosso ogni ordine ed ogni parvenza di coerenza, mentre la presenza dell’uomo, contraddittoriamente, tenta di riporre stasi e disciplina: ma è possibile manovrare l’abisso, interagire a tal punto con la radice degli eterni ritorni? È forse in potere del Sé ricucire lo strappo che divide l’infinito dalla linea certa d’orizzonte? A questa domanda il colore di Giuseppe Bertolino non risponde; preferisce il silenzio alla parola: la luce estrema, innaturale, accoglie nel suo seno l’uomo, pacificamente, acuendo ancor di più l’idiosincrasia degli elementi. E il paradosso pittorico si risolve in nuove attese esistenziali; certo, oltre, ancora oltre l’ultimo orizzonte. In quel sogno dischiuso alla pittura del reale(a), tramite l’inganno sottile del colore.